Nel 1552 la Baronia si frantumò in tanti piccoli feudi governati dai Baroni, i quali vantavano sugli stessi diritti illimitati. Anche a Cardile i baroni Siniscalchi fecero valere sulla popolazione i cosiddetti “iura francorum”, tra i quali il diritto di prima notte, abolito, di poi, per mano di un antenato della famiglia D’Elia con l’uccisione del locale barone.
Il Seicento fu caratterizzato da maggiori oneri a carico dei contadini, costretti a lavorare in condizioni disumane a servizio dei signori locali e a pagare tasse di ogni genere. In aggiunta, gravava su di loro anche il tempo inclemente. Numerose furono infatti le carestie determinate da inverni rigidi ed estati piovose. Alla carestia si aggiunse poi la peste del 1656. La popolazione venne ulteriormente decimata: Cardile, a differenza di altri centri, ebbe un numero di vittime inferiori alla media; infatti, la popolazione, che nel 1648 era composta da 51 fuochi (circa 357 abitanti), dopo il 1656 passò a 30 fuochi (circa 210 abitanti), mentre nella vicina Gioi, gli abitanti si ridussero di oltre 2/3. Di qui la forte devozione dei Cardilesi a San Rocco, protettore degli appestati. Si racconta che in passato, in località “Visciglina”, vennero alla luce delle strutture tombali costruite dagli appestati stessi, i quali, al fine di non restare insepolti, ai primi sintomi del male, si adagiavano in tali strutture in attesa della morte. La carestia, la peste, i soprusi dei signorotti gettarono nello sconforto il popolo cilentano che, avendo smarrito i valori della fede cristiana, finì per accettare ogni forma di superstizione come toccasana ai propri mali. Nacquero così nella tradizione popolare cardilese le figure di fattucchiera e “ianara” (strega), che svolgevano i loro rituali in un luogo, nei pressi di Cardile, che tutt’oggi conserva il nome di “ianara”.
La pressione fiscale e feudale, agli inizi del ‘700, divenne intollerabile a tal punto che tra feudatari e università si aprirono controversie e liti al fine di garantire al popolo i pochi diritti di cui era titolare. Nel 1720, dinanzi alla corte baronale del casale di Cardile, numerosi cittadini rivendicarono il diritto agli usi civici sulle foreste dette la “Visciglina” e “Li Spagari” nei confronti dei Baroni di Cardile, possidenti usurpatori.
Solo nel 1754, a causa delle pessime condizioni economiche in cui versava il Regno, venne redatto a Cardile, come in altri paesi del Cilento, il catasto onciario in modo da ripartire con equità il peso di tasse, gabelle ed altri dazi imposti.
Stemma 4 – Cardile quando era Università autonoma nello Stato di Gioi;
Finalmente il Cilento sembrò rinascere sotto il governo francese (1808-1815) che abolì la feudalità operando una serie di riforme, tra cui l’accorpamento delle università per ragioni economiche e geografiche. Cardile perse la sua autonomia e venne unita a Gioi. Con il ritorno dei Borboni nel 1815 si aprì un periodo di rivolte nel Cilento: nel 1820 la Carboneria, nelle cui file erano iscritti anche Davide, Alessandro e Licurgo Riccio di Cardile, riuscì ad ottenere il riconoscimento della Costituzione. Nel 1828 un’altra rivolta organizzata dall’associazione dei filadelfi fu repressa nel sangue dalla dinastia borbonica. Così le teste di Alessandro e Davide Riccio, recise dai corpi, vennero rinchiuse in gabbie di ferro ed esposte nella piazza di Cardile come pubblico monito. Il nome di Cardile doveva ancora una volta entrare nella storia con la rivolta del 1848, capeggiata da Costabile Carducci, che vide come cospiratore del governo borbonico Catone Riccio, figlio di Davide, che, rinchiuso in carcere, venne liberato pochi anni prima dell’Unità d’Italia.