A Cardile, il mio paese, da quasi un secolo la gente attende il martedì di Carnevale per partecipare al “Chiavone”.
Che cos’è? Qual è il suo significato?
Un osservatore superficiale, che la sera del martedì grasso iniziasse a girovagare per le vie del paese si imbatterebbe di sicuro in un sostanzioso numero di persone che si avvia verso un’abitazione. Incuriosito, l’osservatore seguirebbe la folla e noterebbe che a dirigere tutti loro c’è una persona che ha in mano un oggetto strano, simile a quello che vede sempre nelle mani di Fred Flintstone. Arrivati a destinazione il signore che conduce questo piccolo corteo bussa alla porta servendosi di quell’oggetto. Ad aprire è un uomo, forse il padrone di casa che, nonostante ci sia la luce dei lampioni ad illuminare la strada e la luce elettrica ad illuminare l’interno dell’abitazione, regge in mano una candela e fa luce a colui che ha bussato che, nel frattempo, ha estratto dalla tasca un foglio e ha iniziato a leggere. Legge una sorta di poesia in cui l’italiano e una lingua un po’ strana si alternano. La gente ride, ride, ride e, anche il padrone di casa, che sulle prime sembra imbarazzato, suo malgrado è costretto a ridere. Al termine della poesia il padrone di casa invita le persone ad entrare. Sempre più incuriosito l’osservatore entra in casa e tra la gente che scherza e ride, scorge un lauto banchetto in cui, però, il vero protagonista è il vino.
A che cosa ha assistito il curioso e silenzioso osservatore?
Se chiedesse a uno dei presenti “che cosa è successo qui questa sera?” gli risponderebbe che “hanno appena ‘menato un chiavone’”.
Nel corso dell’anno è inevitabile che qualcuno commetta una colossale sciocchezza. La vergogna è tanta e quindi, per evitare di essere deriso, cerca di tenerla nascosta.
Tuttavia una persona vicina al malcapitato può captare ciò o essere confidente dello sciagurato. Costui, ascoltata la disavventura, pensa che divulgare la confidenza sarebbe un modo molto spassoso per fare una risata tra amici. La stupidaggine, ovviamente, può essere anche sin dall’inizio di pubblico dominio, ma ciò che conta di più è che questa storia venga raccontata agli “scrittori di chiavoni” che, dopo aver ascoltato nei minimi particolari l’avventura del malcapitato, scrivono il “chiavone”. Inizialmente si trattava di una breve strofetta che i bambini recitavano allo sciagurato aspettando che costui offrisse da bere almeno a parenti e amici intimi. La più diffusa era: “Teccote lo chiavone e damme lo maccarone”[1], ma col passare del tempo i versi sono aumentati e il chiavone è diventato una poesia in rima baciata scritta in italiano, in vernacolo o mista in cui viene ridicolizzato l’autore della sciocchezza. Un chiavone ben scritto gioca molto con l’ambiguità, col doppio senso, col sottinteso, con i soprannomi, con i dettagli di quanto accaduto e non si lascia scappare, se necessario, l’utilizzo di qualche parolaccia che renda più gustosa la rima.
In principio, la sera del martedì grasso, per richiamare l’attenzione delle persone si sparavano dei colpi di fucile a salve, mentre oggi basta la confusione che si crea per la strada a generare curiosità e a raggruppare le persone che s’incamminano a casa del destinatario del chiavone. In prima fila c’è sempre colui che deve “menare il chiavone”, cioè lo scrittore nonché lettore della poesia. Si bussa alla porta del malcapitato con una mazza abbastanza consistente: la “piroccola”. Il padrone di casa, a volte ignaro di ciò che l’aspetta altre volte consapevole di che cosa gli ha riservato la sorte, apre la porta di casa e, nonostante ci sia la luce elettrica sia in casa che in mezzo alla strada, regge una candela in mano per ricordare le origini del chiavone, quando non c’era ancora l’illuminazione e c’era bisogno della candela per far luce a chi doveva leggere.
Dopo aver abbondantemente deriso il malcapitato il chiavone lascia sempre intuire, nei versi finali, il seguente concetto: “anche se hai commesso una stupidaggine la collettività ti perdona, ma adesso offrici da bere”.
Onde ‘Ntoniuccio resti un uomo a moda
e non più un asinello senza coda
e pensi ancora che il maggior diletto
la gran corte lo prova col piretto[2].
Quindi lo “sfortunato” padrone di casa lascia entrare le persone e offre loro il vino paesano insieme a salumi e formaggi. La giusta conclusione della serata è lo scorrere del vino che, ieri come oggi, porta via con sé la disavventura, il chiavone e la certezza (o forse no?) che l’anno seguente toccherà a qualcun altro.
Immersa da tanta superficialità e poca ricerca storiografica, la nascita effettiva di questa tradizione si perde nel tempo. Sono tante le teorie relative al nome “chiavone”. Forse è una tradizione importata dalla Spagna dove esistevano dei quartieri chiusi da una massiccia porta serrata con una grossa chiave: il chiavone, che veniva affidata agli uomini delle corti. Costoro, durante il periodo di Carnevale, dopo aver chiuso le proprie mogli nelle abitazioni, uscivano per far visita agli amici bussando alle loro porte con questa chiave. Anche a Cardile, nel centro storico, c’era una porta che chiudeva l’accesso ad un rione e, probabilmente, i cardilesi hanno importato tale tradizione dalla dominazione spagnola[3]. Erano solo gli uomini a festeggiare e anche a Cardile, inizialmente, il chiavone era una tradizione alla quale prendevano parte soltanto gli uomini mentre le donne andavano soltanto a prendere il vino in cantina.
Il nome potrebbe anche derivare dalla “piroccola” che, per la sua dimensione, somiglia effettivamente ad una clava – e quindi c’è un’assonanza tra le parole chiave e clava, quindi chiavone.
Anche le origini storiche sono avvolte nell’incertezza. Sicuramente il primo chiavone scritto risale al 1937, ma sono molti gli ultraottantenni che nei loro ricordi d’infanzia ricordano questa tradizione. Quando la popolazione era composta prevalentemente da analfabeti si chiedeva a chi sapeva leggere e scrivere, quasi sempre un maestro, di scrivere il chiavone e di aiutare chi sarebbe dovuto andare a “menarlo”, a memorizzarlo.
Uno degli scrittori di chiavoni di questi ultimi venti anni mi dice: “Ricevere un chiavone è un onore perché vuol dire che nonostante tutto la popolazione è presente, ti accetta e ti vuol bene anche se commetti delle sciocchezze. Una delle offese più grandi che si possano ricevere è che la gente, dopo aver fatto il chiavone, si rifiuti di entrare a casa del malcapitato. Un episodio del genere si è verificato tanti anni fa e, ancora oggi, se ne parla negativamente”.
La tradizione del chiavone, nonostante le modifiche che il passare del tempo ha imposto, è ancora viva nella comunità cardilese; era ed è rimasto un modo per stare insieme, per far sentire la presenza dei compaesani – seppur in modo scherzoso e forse invadente – alle persone che hanno combinato delle “marachelle”.
Questa tradizione può essere definita come una sorta di show ante litteram. Infatti, soprattutto negli anni scorsi, erano in molti ad accorrere dai paesi vicini per ascoltare i chiavoni, ridere e trascorrere una bella serata in compagnia allietati dal cibo e dal vino locale.
Inoltre non bisogna trascurare il grande valore letterario del chiavone che, a mio parere, entra a pieno titolo nel filone della letteratura popolare. È interessante, infatti, leggere le rime satiriche che combinano la destrezza della rima baciata con la narrazione dell’evento e di tutto ciò che fa da cornice al malcapitato e a quanto ha commesso.
Come questa sono molte le tradizioni popolari intrise di descrizioni dense che, però, restano ad un livello superficiale.
Le tradizioni del passato, però, per restare davvero nella memoria collettiva, devono essere analizzate, sezionate, spolverate perché ciò che siamo è il frutto di ciò che i nostri avi hanno lasciato nel corso della loro vita.
È indispensabile, dunque, non lasciarsi catturare dalla comodità della “thin description” , ma scavare nei meandri delle tradizioni perché una generazione senza passato è, inevitabilmente e tristemente, una generazione senza presente.
Il chiavone indica la storia
rammenta gli avi, la gloria[4].
di Ilaria Longo